Codice Civile art. 2043 - Risarcimento per fatto illecito.

Donatella Salari

Risarcimento per fatto illecito.

[I]. Qualunque fatto doloso o colposo [1176], che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno [7, 10, 129-bis, 840, 844, 872 2, 935 2, 939 3, 948, 949, 1440, 1494 2, 2395, 2504-quater, 2600, 2818, 2947; 185 2, 198 c.p.; 22 ss. c.p.p.; 55, 60, 64 2, 96, 278 c.p.c.]  12.

 

[1] In tema di responsabilità per danno da prodotto difettoso v. art. 114 d.lg. 6 settembre 2005, n. 206; in tema di danno ambientale v. art. 300 d.lg. 3 aprile 2006, n. 152; in tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile v. gli artt. 170-172 d.lg. 7 settembre 2005, n. 209.

[2] Per la responsabilità civile della struttura e dell'esercente la professione sanitaria, v. art. 7 l. 8 marzo 2017, n. 24

Inquadramento

Il giornalismo ha il compito di comunicare con ogni mezzo tecnologico e con la massima capillarità di diffusione, informazioni e idee su temi di interesse generale, nel rispetto della verità sostanziale dei fatti e della tutela della persona. Esso è, chiamato a bilanciare con senso di responsabilità la libertà di critica e di opinione il suo dovere d'informazione che è speculare al diritto del pubblico a riceverl di ricevere le notizie., Iin questo senso il diritto di cronaca consiste nel diritto a pubblicare quello che è collegato a fatti e avvenimenti di interesse pubblico o che accadono in pubblico, ed è riconosciuto nell'ordinamento italiano tra le libertà di manifestazione del pensiero con alcuni vincoli che riguardano il controllo delle fonti, la conoscenza di interpretazioni alternative dello stesso fatto, la continenza, ossia l'autodisciplina della narrazione . Il concetto di verità e vaglio critico delle fonti della narrazione segnano anche il confine tra attività letteraria, pure tutelata dalla Costituzione (tutelata dagli artt. 9 e 33 Cost) e divulgazione critica dei fatti (art. 21 Cost). È da credere, dunque,) che mentre la funzione del giornalismo tragga il proprio fondamento nel citato art. 21 Cost., l'attività creativa dell'a invenzione letteraria potendo trarre spunto e ispirazione da vicende reali non è condizionata dagli stessi limiti che l'ordinamento richiede al giornalista, soprattutto perché all'espressione creativa non è richiesto il rispetto della verità dei fatti narrati.

Logica conseguenza è dunque che il giornalista pur potendo essere creativo nel giudizio sui fatti e che pure contribuisce a formare ed alimentare la pubblica opinione – nel vaglio critico dei fatti che narra — è tenuto alla continenza, sia nella scelta stilistica delle espressioni usate sia in quello sostanziale di limitazione della narrazione alle circostanze e questioni pertinenti nel rispetto della verità anche putativa o relativa, e senza gratuite affermazioni. Ciò sta a significare che il giudice di merito, non può considerare artistica una narrazione di tipo informativo senza verifica di quanto riferito e con linguaggio inappropriato (Cass. I n. 22042 /2016).

Giornalismo è quindi lo svolgimento professionale della libera attività intellettuale, finalizzata alla raccolta, al commento e alla elaborazione critica di notizie, tramite parole, immagini e suoni, destinati a informare attraverso qualsiasi mezzo di diffusione.

L'attività giornalistica è essenzialmente caratterizzata dall'attualità delle notizie, dalla tempestività dell'informazione esercitata attraverso la mediazione intellettuale tra il fatto e la diffusione della sua conoscenza. Il processo di mediazione giornalistica assolve la funzione informativa dell'opinione pubblica prendendo cognizione dei fatti, verificando gli stessi, valutandone la rilevanza in relazione ai destinatari, verificandone le fonti con piena estrinsecazione del diritto di narrazione e di verità putativa.

Il diritto di cronaca, comunque, può essere salvaguardato dall'ordinamento e rivestire carattere esimente con riferimento al momento nel quale la notizia viene ad essere propota, indipendentemente dagli sviluppi successivi,con il che va escluso il carattere diffamatorio di uno scritto propalato al pubblico nel quale si censurava duramente un sindaco per iniziative giudiziarie infondate a nulla rilevando che successivamente il ricorso era stato accolto (Cass. III n. 12013/2017).

Attività giornalistica e diritti della personalità

Se, tuttavia, il giornalismo presenta caratteristiche importanti di partecipazione alla democrazia attraverso la diffusione e il vaglio delle notizia, esiste, per vero, un parallelo problema di comunicazione se quando essa intercetta valori di rango costituzionale come l'onore e reputazione, ossia le proiezioni soggettive di un modo di essere dell''individuo nei due diversi ambiti della propria intima considerazione ( il c.d. amor proprio) ed il riflesso esterno della sua considerazione sociale. In proposito va precisato anche che se in tema di risarcimento del danno ex art. 2043 cod. civ. per lesione della reputazione personale, la condotta in tesi diffamatoria della persona recentemente è stata al centro della giurisprudenza di legittimità, infatti la S.C. ha affermato che essa non va valutata quam suis, e cioè in riferimento alla considerazione che ciascuno ha della sua reputazione, bensì come lesione dell'onore e della reputazione che la persona goda tra i consociati (Cass. I, n. 12813/ 2016). Nel bilanciare, comunque, i due contrapposti interessi alla luce dei principi costituzionali l'ordinamento parla attraverso la giurisprudenza quando definisce l'onore come riassunto delle doti d'integrità della persona e della sua autostima che si proietta all'esterno con l'espressione sintetica di “decoro”, ossia attendibilità e qualità morali. La conclusione appare in linea con il principio di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione da intendere qui come dovere sociale al rispetto della dignità della persona e del suo atteggiarsi in ogni momento di estrinsecazione della sua personalità in senso ideologico, morale, professionale etc.. Ovvio che simili valori di rango costituzionale fanno da ago della bilancia tra diritto- dovere all'informazione e rispetto dei valori individuali. In proposito il giudice di legittimità ha affermato che (Cass. III, n. 9458 /2013) rispetto al diritto di cronaca l'efficacia scriminante a favore del giornalista sorge anche nel caso verità putativa della notizia con ovvie conseguenze in tema di riparto dell'onere della prova. Ne discende che al giornalista, convenuto nel giudizio di risarcimento del danno da diffamazione, per andare esente da responsabilità basta dimostrare non la verità storica dei fatti narrati, ma anche soltanto la loro verosimiglianza; fornita tale prova, è onere di chi afferma di essere stato diffamato dimostrare che la fonte da cui il giornalista ha tratto la notizia, al momento in cui questa venne diffusa, non poteva ritenersi attendibile.

Il dovere di ricerca della verità impone allora una stringente ricerca delle fonti di verifica quantomeno della verità putativa che ancor di più si rende necessario nella stesura di un libro, ossia in un'opera destinata a permanere nel tempo amplificando la pericolosità della condotta diffamatoria (Cass. III, n. 10928/2017).

Ciò sta a significare che la valutazione del danno è condizionata da tutta una serie di variabili che mutano in rapporto alla proiezione all'esterno della personalità del diffamato, nonché in rapporto al proprio sentimento di autostima: ossia la notorietà del danneggiato in uno con quella dell'autore del danno, le caratteristiche intrinseche della condotta diffamatoria; la capacità d'espansione mediatica della notizia, la rettifica se avvenuta. È evidente, allora, che la capacità di tutela da parte dell'ordinamento incontra il limite esterno dell'art. 21 Cost., che, a sua volta, interagisce con l'art. 10 CEDU secondo il quale ogni persona ha diritto alla libertà d'espressione, d'opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza ingerenze o limiti di frontiera. L'esercizio di queste libertà, comporta doveri e responsabilità, e protezione della salute, della morale e della reputazione altrui, e, in campo penale con l'art. 51 c.p., ossia con la causa scriminante dell'esercizio del diritto o l'adempimento di un dovere.

La rilevanza giuridica dell'elemento di notorietà va considerato in senso relativo, ossia essa può rilevare ai fini del diritto di cronaca anche a livello locale. A tale proposito la S.C. ha chiarito (Cass. III, n. 10925/2017) ha considerato pertinente la pubblicazione, in cronaca nazionale e locale, di notizie riguardanti una aggressione in danno di due noti imprenditori richiamando la connessione con una relazione sentimentale che li legava.

La responsabilità del giornalista nel caso di diffamazione a mezzo stampa di cui alla l. 8 febbraio 1948 n. 47 si fonda, perciò, da una parte sulla tutela della libertà di critica e di opinione diretta al maggior numero possibile di destinatari e, dall'altra, sul concetto di verità ( anche putativa) in rapporto all'onore ed alla reputazione di chi sia al centro della notizia giornalistica.

Da notare che, lo stesso elemento di pluralità di comunicazioni ove la proposizione diffamatoria non sia diretta ad una persona determinata va esclusa la responsabilità disciplinare del magistrato (Cass. S.U., n. 69653/2017) che in un forum si era abbandonato ad espressioni astrattamente sconvenienti ma in incertam personam.

Per converso secondo il S.C. (Cass. S.U., n. 10796/2015) la stessa responsabilità va dichiarata nel caso di diffamazione recata dal magistrato tramite messaggi telematici nel dominio informatico dell'ANM – anche in mancanza di querela ed esimente della provocazione considerato che l'offesa è destinata ad essere percepita da una pluralità indefinita di utenti della rete.

Come si è detto l'esercizio del diritto di cronaca per essere lecito deve rispettare, innanzitutto, i requisiti di liceità, ossia conformarsi alla verità oggettiva o putativa della notizia in guisa da attenersi ad una serie di condizioni formali e sostanziali che servono a prevenire la eventuale lesività diffamatoria dell'articolo di stampa (Cass. III, n. 25157/2008).

Ci si trova qui al cospetto di un vero e proprio bilanciamento d'interessi costituzionalmente protetto tra libertà di espressione e di cronaca e rispetto della verità dei fatti che comporta obbligo di riscontro, ricerca delle fonti, vaglio critico delle stesse il cui onere probatorio grava sul giornalista al quale, peraltro, è inibito, secondo la costante giurisprudenza di legittimità anche l'uso d'espedienti stilistici che mettendo in artificiosa relazione più notizie- pur vere- si risolva in un giudizio di disvalore verso la persona. Sul punto la giurisprudenza costituzionale, ha sovente richiamato questi limiti impliciti della libertà di stampa e di opinione in funzione di tutela di valori di rilevanza costituzionale che debbono bilanciarsi con la libertà di espressione, ossia con l'onore, la reputazione e la riservatezza della persona, ma anche l'ordine pubblico, la sicurezza dello Stato, il regolare svolgimento della giustizia insieme alla tutela di alcune forme di segreto. Ne consegue che al diritto d'informare fa riscontro un analogo diritto dei consociati ad essere correttamente informati. Su questo punto giova richiamare anche la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo delle Nazioni Unite del 1948 (art. 19) che protegge la libertà individuale di opinione e di espressione incluso il diritto di ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere. La Corte Costituzionale, in proposito, ha affermato limpidamente che la reputazione costituisce come diritto della personalità un diritto soggettivo perfetto ossia attributo essenziale della persona umana, tutelato dalla Costituzione (Corte cost. n. 184/1986; Corte cost. n. 479/1987).

Insomma, il diritto di cronaca, autolimitandosi nel senso del rispetto di una serie di parametri che la giurisprudenza di legittimità ha inteso porre, può diffondere notizie lesive dell'onore e della reputazione della persona purché sia rispettata non solo la verità oggettiva /putativa della notizia medesima, ma all'esito di una diligente verifica che è tale quando rispetti la verità storica dei fatti narrati. Tale verifica impone che non siano colposamente o dolosamente taciute dal giornalista altre circostanze, ovvero siano utilizzati sottintesi, accostamenti, insinuazioni, allusioni o sofismi obiettivamente idonei a creare nella mente del lettore false rappresentazioni della realtà (Cass. III, n. 10928/2017) e sempre che sussista in un interesse pubblico all'informazione, di modo che la stessa sia pertinente e sia improntata alla c.d. continenza, ossia non trasmodi in incivile propalazione di notizie), ciò che non è richiesto alla satira il cui carattere di inverosimiglianza e di iperbolicità non pone a rischio la reputazione della persona, potendo ciascuno percepire la voluta alterazione della realtà (Cass. III, n. 14822/2012).

In proposito la S.C. ha, infatti, affermato che il carattere satirico della esternazione si coglie nella esasperazione e nel grottesco che esclude, in definitiva un accostamento serio di quanto rappresentato ad una determinata persona pur dove siano utilizzati elementi scurrili di carattere scatologico (Cass. III, n. 6787/2016).

Per contro al giornalista non è consentito) di utilizzare uno scritto diffamatorio al solo scopo di difendersi (nella specie dall'accusa di mancanza rispetto ai doveri d'ufficio) poiché esso non può essere scriminato dal diritto di difesa di cui all'art. 51 c.p. difettandone la strumentalità e necessità rispetto alle sedi proprie nelle quali il diritto di difesa va esercitato (Cass. III, n. 3973/2014).

Diffamazione a mezzo stampa

In sostanza, in tema di diffamazione a mezzo stampa ex artt. 595 e 57 c.p., perché vi sia la scriminate del diritto di cronaca occorre il rispetto di quelle forme di autolimitazione del diritto- dovere contribuisca alla formazione della pubblica opinione, di modo che se la notizia sia dotata di utilità sociale essa può perdere rilevanza penale, in considerazione dell'attualità dell'interesse alla pubblicazione. Ne consegue che la scriminante non rileverà se per esempio i fatti siano risalenti nel tempo ed abbiano perduto la loro capacità espressiva rispetto al diritto dei consociati ad essere informati.

Ne deriva che nell'ipotesi di pubblicazione a mezzo stampa di intercettazioni telefoniche non più coperte da segreto investigativo riferibili – tra l'altro- a persona non coinvolta nel procedimento penale sorge un potenziale pregiudizio alla reputazione, laddove non sia dovuta l'omissione del riferimento al terzo estraneo alle indagini considerando che l'esercizio del diritto di cronaca giudiziaria è comunque funzionale alla conoscenza del fatto ed alla partecipazione dell'opinione pubblica alla giurisdizione (Cass. III, n. 21404 /2014).

Del pari, la scriminante non opererà laddove il diritto di critica giudiziaria trasmodi nell'offesa di parzialità attribuite a chi eserciti una funzione giudiziaria considerato che essa risulta intrinsecamente offensiva, infatti, quando il diritto d'informare riguardi una pubblica funzione la verifica della notizia, ai fini del vaglio di verità, deve essere particolarmente accurata (Cass. V, n. 10631/2009). In questo caso la verità storica dei fatti narrati recede dinnanzi agli esiti dell'attività giudiziaria soprattutto laddove essi siano ancora sub iudice. Nel caso di critica all'attività di un organo requirente l'approccio critico alle attività d'indagine non deve vulnerare i valori di professionalità ed onorabilità del Pubblico Ministero perché da una parte il principio democratico della libertà di espressione e di critica può anche riguardare il provvedimento giudiziario anche con toni aggressivi, ma non deve attentare alla stima di chi conduce le inchieste definendole «pseudo- indagini» e tacciando le stesse di uni direzionalità (Cass. V, n. 41761/2016).

In questa ipotesi infatti, s'impone l'uso del metodo scientifico che richiede un'accurata ricerca del materiale utilizzabile, nonché il vaglio critico delle fonti di provenienza di modo che possa essere esclusa la scriminante del diritto di cronaca ove l'autore non abbia indicato le fonti delle sue ricerche, desumendo l'esistenza di alcuni fatti dalla mera vox populi (Cass. V, n. 42314/2016).

Per quanto riguarda la continenza formale dell'attività giornalistica, premesso che essa va apprezzata secondo il criterio della correttezza della narrazione,come sopra specificato, va detto che la responsabilità dell'autore va, comunque, esclusa allorché costui si limiti a riportare in un servizio di cronaca dichiarazioni offensive rese nel corso di un intervista televisiva da un personaggio pubblico ai danni di altri soggetti che del pari rivestono il medesimo ruolo —se ed in quanto sussista un interesse pubblico alla notizia — di forte interesse rispetto ad un noto caso di cronaca giudiziaria.

In casi del genere non può essere chiesto al giornalista un ruolo censorio rispetto a dichiarazioni offensive formulate dall'intervistato nei confronti di alcuni tutori dell'ordine perché, in tal caso, la notizia verrebbe svuotata del suo reale significato, a tutto svantaggio del diritto-dovere di informare la pubblica opinione. Continenza della narrazione sta, perciò, ad indicare che non può essere scriminata la propalazione di una notizia accompagnata da espressioni sconvenienti ed offensive non giustificate dal contesto narrativo e pertanto del tutto gratuite.

È da credere, allora, che in tema di diffamazione a mezzo stampa, non operi l'esimente del diritto di cronaca quando l'articolo di giornale, nell'affrontare un argomento di pubblico interesse (nella specie: le conseguenze sociali delle separazioni), contenga dati eccedenti lo scopo informativo, in quanto riferiti alla vita privata della parte offesa, e tali da lederne la reputazione, in assenza di un profilo di notorietà della stessa (Cass. V, n. 42987/2016).

Ad esempio, non sussiste l'esimente del diritto di cronaca, nei confronti del direttore responsabile di un quotidiano nel quale sia pubblicato un articolo non firmato che affermi, contrariamente al vero, che nei confronti di un presidente dei revisori dei conti di una banca, si svolgano indagini per il reato di appropriazione indebita anziché per il delitto di ostacolo alle funzioni di vigilanza, ex art. 2638 c.c.; non è, infatti, irrilevante per la reputazione di un soggetto l'attribuzione di un fatto illecito diverso da quello su cui effettivamente si indaga (Cass. V n. 5760/ 2012).

Sotto l'aspetto processuale anche una persona giuridica o un ente di fatto può qualificarsi come parte offesa considerato che fondazioni, associazioni al pari corpi amministrativi e giudiziari allorché siano centri di riferimento di un interesse collettivo rispetto alle finalità perseguite e, dunque, oltre od anche oltre il singolo componente possono essere attinte dalla violazione della loro reputazione come nel caso di un'associazione professionale (Cass. V n. 16281/2010) o della Corte dei Conti (Cass. V n. 982/1998).

Da ciò si comprende agevolmente che è risarcibile quel danno non patrimoniale che consiste nell'avere pregiudicato interessi facenti capo ad una sfera giuridica che prescinde sia dall'individualità sia dal carattere fisico- ontologico dell'ente che si assume danneggiato dalla condotta diffamatoria trattandosi, pur sempre d'interessi costituzionalmente protetti, come nel caso, ad esempio, di una congregazione religiosa (Cass. V, n. 12744 /1998).

Diritto di critica e di cronaca - Responsabilità direttore del giornale

Il diritto di critica, al pari di quello cronaca, è come detto, riconosciuto dall'art. 21 della Costituzione il quale, nel primo comma, recita: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». Ciò implica come ogni avvenimento possa essere commentato e vagliato da qualsiasi cittadino perché legittimato a farlo secondo il principio democratico presidiato dalla Costituzione.

Il diritto di critica si concretizza, pertanto, nella manifestazione di opinioni le quali, tuttavia, non possono oltrepassare limiti ben precisi costituiti dal rispetto della verità e dell'interesse pubblico.

L'esimente del diritto di cronaca, infatti, secondo il Giudice di legittimità, non coincide il diritto di critica per l'assorbente ragione che quest'ultimo si obiettivizza nella narrazione dei fatti conforme a verità, ma in un giudizio che, esprime un punto di vista individuale, seppure riferito ad un fatto che sia ragionevolmente veritiero.

È dunque da credere che il diritto di critica sia comunque espressione del libero diritto di opinione e tuttavia conformato ad una continenza che troverà il suo limite nella correttezza formale della narrazione, sia pure con l'uso di uno stile colorito e pungente (Cass. III, n. 1434/2015), mentre non è certamente scriminabile dal diritto di critica e di cronaca una narrazione ove pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano nel contempo taciuti dolosamente o colposamente altri fatti, che in assenza del collegamento con quelli non narrati ne mutano completamente il significato (Cass. III, n. 25739/2014).

Naturalmente il legittimo esercizio del diritto di critica temperato dal principio della va a bilanciare l'interesse del singolo al rispetto della propria reputazione con quello della libera manifestazione del pensiero che si sostanzia nel bilanciamento ravvisabile nella pertinenza della critica all'interesse dell'opinione pubblica alla conoscenza non tanto del fatto oggetto di critica, ma di quella interpretazione del medesimo fatto (Cass. III n. 5005/2017; Cass. III, n. 841 /2015). Il controllo sul livello di comunicazione e le scelte fondamentali di linguaggio coinvolgono il diritto di critica per modo che il pregiudizio inferto all'altrui reputazione diventa fonte di responsabilità per il giornalista anche in assenza di espressioni in sé offensive, surrettiziamente operando accostamenti allusivi di fatti ed opinioni tali da confondere la narrazione operando su più piani in modo da impedire la piena comprensione di essa (Cass. III, n. 12522/2016).

Se, infatti, la funzione della cronaca consiste, invero, nel raccogliere le informazioni per diffonderle alla collettività affinché essa si determini rispetto ad un punto di vista, è altrettanto vero che le norme sul diritto di cronaca si applicano a chiunque descriva un avvenimento, o un evento di pubblico interesse, attraverso un mezzo di diffusione e si estende a chiunque, anche a chi non iscritto all'albo dei giornalisti, voglia rivolgersi alla collettività.

La linea di demarcazione che separa il diritto di ognuno a manifestare il proprio pensiero, riconosciuto dall'articolo 21 della Costituzione della Repubblica Italiana, e dall'articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti umani, e il reato di diffamazione, può essere, infatti, escluso dalla sussistenza della causa di giustificazione del diritto di cronaca.

In detta ipotesi la giurisprudenza è ormai consolidata nel ritenere da una parte l'obbligo del giornalista di esercitare un minuto controllo sulle fonti di provenienza della notizia nel senso che incombe su costui un dovere- per quanto possibile- di ricerca della verità dei fatti oggetto della sua narrazione ciò che si sostanzia nel dovere deontologico che informa la sua professione con un ulteriore autolimitazione rispetto alla notizia che non deve mai trasmodare in caratterizzazioni spregiativa (Cass. III, n. 20616/2016).

Il Giudice di legittimità, in proposito, ha anche chiarito che la verità della notizia non è inficiata da inesattezze secondarie o marginali ove esse non alterino, nel contesto dell'articolo, la portata informativa dello stesso rispetto al soggetto al quale sono riferibili (Cass. III, n. 17197/2015). In sostanza l'equilibrio necessario tra narrazione e vaglio critico della notizia è mantenuto laddove in un'ampia panoramica sulle organizzazioni esistenti in un determinato campo associativo si limiti a riferie anche la notizia dell'apertura di una inchiesta giudiziaria sul conto di una di esse, senza impegnarsi in alcuna espressione suggestiva che lasci intendere una propensione sulla colpevolezza di quella indagata (Cass. III, n. 20616 2016).

Laddove, infatti, la cronaca abbia per oggetto dichiarazioni di un pentito in seno ad un'inchiesta giudiziaria il concetto di verità sarà evidentemente relativizzato rispetto ad un sindacato che spetta alla sola autorità giudiziaria (Cass. III, n. 17234/2015).

In proposito può dirsi che secondo la giurisprudenza di legittimità (Cass. pen. n. 3073/2016) la verità della notizia di cronaca giudiziaria che tragga la sua fonte da un'indagine o da un provvedimento giudiziario è tale in rapporto all'art. 51 c.p. ogni qualvolta essa sia fedele al contenuto del provvedimento stesso, senza manipolazioni o alterazioni significative. Secondo un recente arresto giurisprudenziale della S.C. la verità dei fatti narrati col mezzo della stampa rispetto a dettagli non destinati a renderla dubbiosa (Cass. III, n. 17197/2015) con riferimento ad un'indagine penale dove, nonostante alcune inesattezze, rimaneva percepibile la specifica posizione processuale del ricorrente rispetto agli altri indagati.

La fattispecie criminosa di pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale di cui all'art. 684 c.p. integra un reato monoffensivo, posto che obiettivo della norma, prima della conclusione delle indagini preliminari, è quello di compromettere il buon andamento delle stesse e, dopo tale momento, quello di salvaguardare i principi propri del processo accusatorio;

Nessuna autonoma pretesa risarcitoria può essere avanzata dalla parte coinvolta nel processo per il solo fatto che sia stata violata la norma incriminatrice predetta;

La portata della violazione, sotto il profilo della limitatezza e della marginalità della riproduzione testuale di un atto processuale, va apprezzata dal giudice di merito, in applicazione del principio della necessaria offensività della concreta condotta ascritta all'autore, nonché sul piano civilistico della irrisarcibilità del danno patrimoniale di lieve entità; la relativa valutazione è incensurabile in sede di legittimità, ove congruamente motivata.

Va citata in proposito Cass., S.U., n. 3727/2016 secondo la quale la di condotta penalmente rilevante di pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale di cui all'art. 684 c.p. integra un reato monoffensivo, dovedosi valorizzare soprattutto la ratio di tutela dei prinicipi propri del processo accusatorio, con la conseguenza nessuna autonoma pretesa risarcitoria può essere avanzata dalla parte coinvolta nel processo per il solo fatto che sia stata violata la norma incriminatrice predetta nel caso di pubblicazione di parti marginali di atti processuali secondo un giudizio di offensività concreta demandato al giudice del merito che può sfociare sul piano civilistico nella irrisarcibilità del danno patrimoniale di lieve entità.

Un limite, tuttavia, non scriminabile in assoluto è quello indicato da quella parte di giurisprudenza di legittimità (Cass. V, n. 39195/2015; Cass. V, n. 41249/2012) che ha affermato essere legittima, in relazione all'art. 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, la condanna a pena detentiva in ipotesi di condanna per il delitto nel caso di diffamazione a mezzo stampa commesso mediante pubblicazione di una notizia dolosamente falsa da inquadrare in quelle "ipotesi eccezionali" già scrutinate dalla giurisprudenza della Corte EDU (V. Corte EDU 24 settembre 2013, Belpietro c. Italia; Corte EDU 27 novembre 2012; Corte EDU22 aprile 2010, Fatallayev c. Azerbaigian; Corte EDU 6 dicembre 2007 Katrami c. Grecia). Queste decisioni più note come quelle del “carcere al giornalista” hanno portato all'attenzione della cronaca la questione della pena detentiva tuttora prevista per il giornalista in caso di diffamazione a mezzo stampa distinguendo a seconda che l'offesa consista nell'attribuzione di un fatto determinato o meno::

- nel primo caso provvede la l. 8.2.1948 n. 47, che all'art. 13 commina la reclusione da uno a sei anni e multa non inferiore ad euro 258;

- nel secondo caso, l'art. 595, terzo comma, c.p., prevede la reclusione da sei mesi a tre anni o multa non inferiore a euro 516.

Ovviamente la previsione va messa in correlazione con la libertà di espressione contenuta nell'art. 21 della Costituzione e nell'art. 10 della CEDU, sopra citate, sia pure con quelle restrizioni di cui al comma 2 che i singoli Stati possono prevedere e che si estrinsecano in determinate formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni, previste dalla legge: non ultima quella penale.

Forme di risarcimento

Come noto il risarcimento può, a mente dell'art. 185 c.p., essere chiesto nel processo penale come reintegrazione del danno da reato, sia patrimoniale sia non patrimoniale, nel senso che esso comprenderà qualunque diminuzione del patrimonio che possa atteggiarsi come danno emergente o lucro cessante, nonché come danno non patrimoniale che ha pregiudicato la parte lesa da intendersi come danno biologico, morale soggettivo o espressivo di un diritto di rango costituzionale. L'articolo citato parla anche di restituzione da intendersi in senso lato come forma di reintegrazione. L'azione, a mente dell'art. 74 c.p.p., va esercitata nei confronti dell'imputato e del responsabile civile dalla parte offesa o dai suoi eredi universali che possono esercitarla in sede civile in conseguenza del fatto illecito dell'autore.

Il diritto al risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. prescinde dalla esistenza del reato di diffamazione. Infatti, l'onore e la reputazione costituiscono diritti inviolabili della persona, la cui lesione fa sorgere in capo all'offeso il diritto al risarcimento, a prescindere dalla circostanza che il fatto lesivo integri o meno un reato, sicché ai fini risarcitori è del tutto irrilevante che il fatto sia stato commesso con dolo o con colpa.

Va innanzitutto premesso che il Giudice di legittimità nel pervenire ad un nuovo inquadramento del danno non patrimoniale (Cass. S.U. n. 26972/2008), ha chiaramente posto in evidenza che l'art. 2059 c.c. non disciplina una autonoma fattispecie di illecito, da intendere come distinta da quella di cui all'art. 2043 c.c., ma si limita a disciplinare i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali, sul presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell'illecito richiesti dall'art. 2043 c.c.: e cioè la condotta illecita, l'ingiusta lesione di interessi tutelati dall'ordinamento, il nesso causale tra la prima e la seconda, la sussistenza di un concreto pregiudizio patito dal titolare dell'interesse leso.

Come noto, secondo i principi enucleati nel 2008 in tema di responsabilità extracontrattuale contenuti nelle cd. sentenze gemelle delle Sezioni Unite del 2008 (n. 26972/2008, n. 26973/2008, n. 26974/2008 e n. 26975/2008) e del loro significato di tutela rispetto alla lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato un danno non patrimoniale fonte di obbligo risarcitorio è rimasto confermato che il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi previsti dalla legge o quando determinato da una fattispecie di reato, ovvero quando la condotta,pur non costituendo ipotesi tipizzata dalla legge penale, il risarcimento deve ammettersi sulla base di un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., ossia abbia determinato una lesione significativa di un diritto della persona direttamente tutelato dalla legge, sicché il risarcimento del danno non patrimoniale potrà caratterizzarsi quale esito della lesione di interessi della persona di livello costituzionale.

Ne consegue che la nozione di danno morale (inscritto nella più ampia categoria del danno non patrimoniale) potrà essere disancorata dal rilievo penale concreto della condotta illecita (Cass. I. 1, n. 13085/2015, a mente degli artt. 2059 c.c. e 185 c.p. né, esige, a maggior ragione, che sia stata pronunciata condanna penale passata in giudicato. Ne deriva che il giudice civile potrà liberamente accertare il fatto, poiché è sufficiente che esso sia astrattamente previsto come reato, con il che la mancanza di una pronuncia del giudice penale non sarà d'impedimento all'accertamento, da parte del giudice civile, della sussistenza degli elementi costitutivi della condotta illecita.

Infatti, chiarendo i rapporti tra giudizio civile e penale in tema di risarcimento del danno, il Giudice di legittimità (Cass. III, n. 25447/2015), ha ribadito il consolidato principio secondo cui, ai sensi dell'art. 652 (nell'ambito del giudizio civile di danni) e dell'art. 654 (nell'ambito di altri giudizi civili) c.p.p., il giudicato di assoluzione ha effetto preclusivo nel giudizio civile solo ove contenga un effettivo e specifico accertamento circa l'insussistenza o del fatto, ovvero circa la partecipazione dell'imputato e non anche nell'ipotesi nella quale l'assoluzione sia determinata dall'accertamento dell'insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o l'attribuibilità di esso all'imputato anche quando l'assoluzione sia stata pronunziata a norma dell'art. 530, comma 2, c.p.p. Nel caso scrutinato, infatti,la corte di merito aveva affermato l'impossibilità di ricostruire i fatti.

Costituendo, dunque, l'onore e la reputazione diritti inviolabili della persona, la relativa lesione fa sorgere il diritto al risarcimento dei danni a prescindere dalla circostanza che il fatto lesivo integri o meno un reato (v. Cass. III, n. 25423/2014). Ovviamente, secondo l'insegnamento della giurisprudenza di legittimità a sezioni unite l'esistenza di un danno in senso ontologico fa necessariamente presupporre un illecito e, per converso, il danno risarcibile va escluso perché la prova di esso è difficile e, pertanto il danno- evento ossia la lesione di un diritto tutelabile va tenuto distinto dal «danno conseguenza» cui si rivolge l'esigenza riparatoria.

Come accennato, in caso d'illecito che abbia causato un pregiudizio la persona danneggiata potrà pretendere il risarcimento del danno patrimoniale e non, oltre che la riparazione pecuniaria di cui all'art. 12 l. 8 febbraio 1948 n. 47 a mente della quale: « Nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, la persona offesa può chiedere, oltre il risarcimento dei danni ai sensi dell'art. 185 del Codice penale, una somma a titolo di riparazione. La somma è determinata in relazione alla gravità dell'offesa ed alla diffusione dello stampato» ed infine pubblicazione della sentenza di condanna (art. 8 l. n. 47/1948, cit.).

Secondo il Giudice di legittimità la sanzione pecuniaria può essere estesa al di là delle condotte diffamatorie tipiche punibili a titolo di dolo anche nel caso di omesso controllo del direttore responsabile (cfr. Cass., n. 13198/2010). Ma l'art. 12 l. 8 febbraio 1948, n. 47, nel prevedere una ipotesi eccezionale di pena pecuniaria privata per la diffamazione a mezzo stampa, non è suscettibile di applicazione analogica a casi diversi da quelli espressamente contemplati; conseguentemente, in mancanza di un espresso richiamo alla suddetta disposizione da parte della legge 7 agosto 1990, n. 223, che disciplina i reati commessi con il mezzo televisivo, non è applicabile a questi ultimi (Cass. III, n. 6579 /2013).

Questioni processuali

Come accennato secondo il disposto dell'art. 74 c.p.p., l'azione civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno, di cui all'art. 185 c.p., fa capo nel processo penale al soggetto che ha subito le conseguenze del reato di calunnia ma anche ai suoi successori universali, nei confronti dell'imputato e del responsabile civile. La disposizione fa riferimento al diritto al risarcimento «iure successionis», che spetta evidentemente solo ai successori universali allorché si sia verificato un depauperamento del patrimonio della vittima in conseguenza dell'accadimento (Cass. III, n. 29735/2013) ex art. 2947 c.c. il termine previsto ai fini del risarcimento è di cinque anni da quando il fatto è avvenuto, al terzo comma dello stesso articolo è prevista l'eventuale più lunga prescrizione prevista per il reato, decorrente dalla data del fatto, purché il giudice civile accerti, «incidenter tantum», con gli strumenti probatori ed i criteri propri del relativo processo, l'esistenza di una fattispecie che integri gli estremi di un fatto-reato in tutti i suoi elementi costitutivi, sia soggettivi che oggettivi (Cass. III, n. 12738/2016).

A conferma di ciò la S.C. (Cass.III, n. 16888/2016) ha ancora precisato sulla prescrizione che ai sensi dell'art. 2947, comma 3, prima parte, c.c., è indispensabile il raffronto tra il fatto illecito dedotto in giudizio e e la fattispecie incriminatrice, senza che sia necessaria la coincidenza dell'evento dannoso conseguente un illecito civile rispetto all'interesse protetto dalla norma penale

Cronaca giudiziaria

Questione a parte riguarda la rappresentazione del processo sia sugli organi di stampa che in tv, ovvero nelle apparizioni e nei dibattiti televisivi o in occasioni pubbliche che suggerisca al pubblico una verità chela quale, lungi dal costituire un controllo e una critica democratica al processo sia penale che civile introduca, invece, forme, di disconoscimento di regole-cardine del sistema processuale, soprattutto nella restituzione di questa realtà nei talk-show che si occupano dei processi in corso, inducendo forme di passività degli spettatori attraverso la divulgazione populistica delle vicende rappresentate Dal sovvertimento della regola formale, sorge il serio rischio del cosiddetto «rumore comunicativo», ossia di un flusso di pseudo- informazioni che, in assenza di una sorta di mappa cognitiva del processo e della legalità, rischia di produrre quell'effetto paradosso di qualcosa che viene raccontata con sdegno, scandalo e partecipazione emotiva, ma, che, alla fine, non soddisfa il diritto di cronaca in senso pieno e democratico per spingerlo verso una sorta di plebiscito mediatico Il problema non riguarda solo la narrazione del processo penale, ma anche quella del processo civile. Nel primo caso si assiste alla reiterata declamazione di principi cardine (es. presunzione d'innocenza art. 27 Cost.) che però offuscano ossessivamente pregnanti principi di pari rango, uno tra tutti: l'esercizio dell'«azione penale» che sta ad indicare tutta una serie di iniziative ed attività attraverso le quali il Pubblico Ministero (organo giurisdizionale) persegue presunti responsabili di ogni tipo di reato perché vengano sottoposti a processo e giudicati. Nel secondo caso le note vicende del risarcimento dovuto ad una casa editrice hanno scompaginato, nella narrazione delle televisioni generaliste anche le regole del processo civile. Insomma, al deficit di regola si sostituisce una regola immagine o processo immagine, ossia un prodotto sostitutivo della regola e del processo, anche nei docu-fiction o nei salotti televisivi che si occupano di processi penali. Se questa regola-immagine viene elaborata e diffusa attraverso i media come luogo privilegiato di manipolazione della regola stessa, ecco che essa stessa diviene evanescente e diventa un «make believe» che negli ultimi tempi esprime le cd fake news. L'analisi di questi stereotipi comunicativi sulle rappresentazioni mediatiche del processo può costituire un'occasione di riflessione e di comparazione di linguaggi e di scelte narrative sempre più spesso poste in posizione antagonista tra verità e dimensione convenzionale della narrazione giornalistica. È necessario, perciò, riflettere sulle quotidiane deformazioni di ciascun caso giudiziario stesso nel punto di rottura tra processo, norma e semplificazione gionalistica, alla ricerca di una sorta di estetica che riequilibri esigenze comunicative e dignità della regola e rispetto del pubblico del suo diritto ad essere informato cercando di armonizzare narrazione comunicativa e percezione della legalità come bene comune e come presidio dei diritti costituzionali. Ne discende che l'unico limite invalicabile è quello della dolosa consapevolezza del carattere falso della notizia.

Come accennato la libertà di manifestazione del pensiero, presidiata dall'art. 21 Cost. e dall'art. 10 CEDU, soffre un limite nel bilanciamento con la tutela, pure costituzionale dell'onore e della reputazione individuale (artt. 2 e 3 Cost. e 8 CEDU), ma tale bilanciamento non opera allorché la notizia, maliziosamente preconfezionata e già smentita nei giorni precedenti da più organi d'informazione che riportavano l'esatta ricostruzione della vicenda, esclude in modo tale da escludere la scriminante del diritto di manifestazione del pensiero,anche in senso putativo (Cass. pen. V, n. 41249/2012). In casi del genere In particolare secondo la sentenza, va affermata (Cass. III, n. 838/2015 va affermata la possibilità di fondare una pretesa risarcitoria in caso di reato di pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale previsto all'art. 684 c.p. (che sanziona «chiunque pubblichi, in tutto o in parte, anche per riassunto o a guisa di informazione, atti o documenti di un procedimento penale, di cui sia vietata per legge la pubblicazione»), a prescindere dal fatto che vi concorra o meno la diffamazione (cfr., al riguardo, Cass. pen. n. 17051/2013 che chiaramente evidenzia l'autonomia della tutela fondata sulla violazione delle norme concernenti il segreto su atti processuali rispetto a quella correlata alla diffamazione). Il giudice di legittimità afferma che l'art. 684 c.p. «costituisce, reato plurioffensivo... rispetto alla dignità e la reputazione di tutti coloro che, sotto differenti vesti, partecipano al processo» (cfr. Cass. n. 17602/2013) e il regolare esercizio della giurisdizione.

In definitiva, secondo il Giudice di legittimità il diritto di cronaca va esercitato nel rispetto dell'art. 114 c.p.p. che prevede la libera pubblicazione del contenuto degli atti non più coperti dal segreto. Come noto l'art. 114 c.p.p., — indica il divieto di pubblicazione «anche parziale o per riassunto... degli atti coperti dal segreto istruttorio o anche solo del loro contenuto» ivi compresi gli atti non più coperti dal segreto pertinenti ad un procedimento penale ancora in corso, salva la possibilità (comma 7) della divulgazione di quelli non coperti dal segreto.

Responsabilità di proprietario ed editore

La responsabilità civile del giornalista nel caso di articolo che leda l'altrui reputazione in uno con quella del del direttore responsabile nel caso di diffamazione a mezzo stampa periodica trae la sua fonte dall'art. 185, secondo comma, c.p., che prevede l'obbligo di risarcimento del danno sia patrimoniale che morale.

La natura lesiva dell'articolo diffamatorio che consiste, evidentemente, nella lesione dell'onore e della reputazione di un soggetto dall'art. 21 Cost. sia dall'art. 10 CEDU al quale vengono attribuiti fatti o qualità riprovevoli, ossia idonei a determinare biasimo nella compagine sociale. Tale condotta comporta una duplice responsabilità sia di carattere civile che penale, oltre che disciplinare con riferimento all'ordinamento professionale cui appartiene il responsabile.

Il sistema riparatorio e sanzionatorio riguarda, perciò, sia l'autore dello scritto cui sia aggiunge quella ulteriore riguardante il proprietario e l'editore secondo la legge sulla stampa (art. 11 l. 8 febbraio 1947, n. 47) La disposizione citata recita: «..per i reati commessi col mezzo della stampa sono civilmente responsabili in solido con gli autori del reato e fra di loro, il proprietario della pubblicazione e l'editore». Ne consegue che il direttore responsabile di un quotidiano risponde sempre in solido con il giornalista autore di uno scritto diffamatorio, sia nel caso di omissione del controllo sia nel caso sia nel caso di concorso nel reato di diffamazione ai sensi dell'art. 110 c.p., ma in quest'ultima ipotesi la condotta sarà incriminata a titolo di dolo.).

La responsabilità del direttore del giornale per i danni conseguenti alla diffamazione a mezzo stampa trae il suo principio fondante nell'obbligo di controllo e nel potere di sostituzione e pertanto sussiste se il direttore omette il controllo nell'ambito dei poteri volti ad impedire la commissione di fatti diffamatori (art. 57 c.p.) (Cass. n. 25157/2008). La condotta può essere espressione sia di un atteggiamento di volontà che di un colposo deficit di diligenza. Ciò premesso il direttore del giornale oltre a porre le premesse dell'agevolazione colposa concorre nel fatto diffamatorio se la sua condotta sia indirizzata a ledere l'altrui reputazione. Ne consegue che il direttore responsabile di un quotidiano risponde sempre in solido con il giornalista autore di uno scritto diffamatorio, sia nel caso di omissione del controllo sia nel caso di concorso nel reato di diffamazione ai sensi dell'art. 110 c.p., ma in quest'ultima ipotesi la condotta sarà incriminata a titolo di dolo.

La regola della responsabilità solidale di cui all'art. 2055 c.c. indica che più persone possono essere chiamate a rispondere del fatto illecito senza esigere che tutte abbiano agito col medesimo atteggiamento soggettivo (dolo o colpa), purché, anche con condotte indipendenti, abbiano tutte contribuito a determinare lo stesso evento dannoso.

Si tratta, dunque di due profili di controllo, l'uno preventivo che coinvolge la scelta del giornalista e l'altro più sostanziale che si estrinseca in un momento successivo e che incide sul contenuto del racconto giornalistico.

Ciò premesso va detto che il controllo sostanziale può ovviamente coinvolgere vari aspetti del pezzo: dalla collocazione formale al del titolo, fino alla verifica delle fonti. Anche la struttura della narrazione in sé considerata può far sorgere l'obbligo di controllo nel senso che anche fatti veri potrebbero presentare profili diffamatori se collegati artificiosamente a fatti non veri ed accompagnati da espressioni suggestive e fuorvianti che potrebbero esporre il terzo ad una lesione della reputazione.

Il Giudice di legittimità (Cass. III, n. 12012/2017) ha ben chiarito che la comprensione del testo ai fini dell'accertamento della natura diffamatoria dell'articolo non deve essere atomistica, ma complessiva ove però il solo titolo può costituire mezzo espressivo suggestivo e perentorio di certe affermazioni diffamatorie che ad una lettura superficiale specie nel web rispetto ai titoli dell'“home page”, può rivestire di per sé carattere diffamatorio.

Danni patrimoniali e morali - Pubblicazione della sentenza - Diffamazione via web - Prospettive di riforma

Per quanto riguarda il danno patrimoniale esso sarà riconosciuto alla parte che si assume danneggiata se questa fornirà la prova:

a) di un nesso causale diretto ed immediato tra la pubblicazione di notizie idonee a ledere la sua considerazione ed il suo rispetto sociale e la perdita patrimoniale (un danno emergente o un lucro cessante);

b) che il preteso danneggiato abbia subito in conseguenza della condotta illecita un simile pregiudizio. La liquidazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c. è consentita solo allorché il pregiudizio sia esistente (Cass. III n. 20889/2016) ma non sia possibile quantificarlo, con il che quando la condotta lesiva della reputazione attinga un esercizio commerciale, considerato l'obbligo di quest'ultima di tenere una contabilità, un'eventuale calo di fatturato per contrazione della clientela dissuasa da simili ingiuste narrazioni potrebbe essere ostensibile ai fini della prova del danno patrimoniale (Cass. III, n. 27027/2016).

Ovviamente il risarcimento deve essere specifico e proporzionato rendendosi al contempo capace di rendersi prevedibile se riferitoa a fatti analoghi (Cass. III, n. 1361/2014). È inidonea una valutazione rimessa alla mera intuizione soggettiva del giudice e, quindi, in assenza di qualsiasi criterio generale valido per tutti i danneggiati a parità di lesioni, sostanzialmente al suo mero arbitrio.

Per quanto riguarda il danno non patrimoniale, come già chiarito, la categoria generale del danno non patrimoniale – che attiene alla lesione di interessi inerenti alla persona di tipo a-reddituale – ha una sua natura complessa rispetto alla quale i nomina iuris hanno funzione solo descrittiva.

La prova del danno non patrimoniale può essere fornita anche tramite presunzioni o con il fatto notorio, considerando inoltre la capacità espansiva del pregiudizio e la posizione sociale e professionale del danneggiato (Cass. III, n. 13153 /2017).

Ne deriva che tutte le voci di danno, allorché vi sia una compresenza di pregiudizi come conseguenza della condotta illecita, dovranno essere valutate in sede di liquidazione del danno, giacché va praticata l'integralità del risarcimento, con il solo limite del divieto di duplicazioni risarcitorie rispetto allo stesso pregiudizio. In proposito la S.C. ha affermato recentemente (Cass. III, n. 18174/ 2014) che il danno alla reputazione, da valutare ex art. 2049 c.c. nel duplice ambito di valore "personale" e "professionale" da inquadrare nell'ambito della categoria del danno non patrimoniale di cui all'art. 2059 c.c., deve essere inteso in termini unitari e, pertanto, non scaturisce da quella lesione plurioffensiva una duplicità di poste risarcitorie. Ne consegue che il danno alla reputazione traendo il suo fondamento dall'art. 2 della Costituzione — quale che sia lo sviluppo lesivo del pregiudizio — dovrà ristorare la dignità della persona in quanto tale e, pertanto, in senso unitario e non quam suis.

Nondimeno il pregiudizio lamentato (tenuto conto degli arresti giurisprudenziali in materia di pregiudizi costituzionalmente rilevanti) deve essere serio, con la conseguenza che pertanto il risarcimento dovrà essere respinto (Cass. III, n. 21424/2014) ove si tratti di danni bagatellari.

Laddove, per esempio, la locandina di un quotidiano dia la notizia dell'arresto di una persona indicata solo con il cognome, comune al diffamato, va esclusa la lesione dell'immagine di quest'ultimo, considerato che i giornali del giorno immediatamente successivo avevano reso possibile identificare la persona realmente arrestata e il quotidiano collegato alla locandina aveva pubblicato una lettera di rettifica inviata dallo stesso presunto diffamato.

Tanto premesso è da credere che l'esigenza di personalizzazione del danno – conseguenza dovrà tenere conto di alcuni irrinunciabili parametri: 1) mezzo utilizzato e relativo spazio dedicato; 2) risonanza mediatica della notizia; 3) eventuale rettifica successiva; 4) professione o ruolo pubblico del soggetto leso all'epoca dei fatti e rapporto tra narrazione e ruolo sociale di costui.

Sul punto 1) si segnala Cass. III n. 23144/2013 che ha ben specificato che nel caso di diffamazione, ove la condotta offensiva della reputazione si manifesti con reiterazione (per esempio attraverso una trasmissione televisiva che occupi più puntate) non va applicato l'istituto della continuazione di cui all'art. 81 c.p. considerato che esso corrisponde ad una "fictio iuris" ispirato al "favor rei", che non si estende alle forme civilistiche di risarcimento nelle quali la centralità è riservata alla figura del danneggiato ed all'intensità del pregiudizio inflitto alla sua reputazione ed al suo onore.

Rispetto a tali valori il legislatore, come noto, ha previsto la riparazione pecuniaria (art. 12 legge stampa) sempre che sussista il reato di diffamazione a mezzo stampa. Si tratta di un‘ ipotesi eccezionale di pena pecuniaria privata legale che, come tale, può aggiungersi al risarcimento del danno autonomamente liquidato in favore del danneggiato (Cass. n. 14761/2007). Naturalmente il risarcimento del danno morale concorre con la riparazione pecuniaria di cui all'art. 12 della legge n. 47 del 1948, infatti il danno morale che può essere a liquidato, al pari del quantum della pena pecuniaria con ampi poteri discrezionali anche in via equitativa, al pari dell'entità della pena pecuniaria.

In casi del genere è da credere che il giudice allorché proceda alla liquidazione equitativa del danno morale non sia tenuto a fornire una dimostrazione minuziosa e particolareggiata di ciascuno degli elementi in base ai quali ha formato il proprio convincimento, ma è sufficiente che dimostri di essersi rappresentato i tutti gli elementi fattuali spesi nel processo. Il risarcimento in questione e non assorbe la somma c.d. riparatoria che non costituisce una duplicazione delle poste di danno risarcibile. Sulla questione i giudici di merito hanno premesso che, sulla base del prevalente indirizzo giurisprudenziale di questa Corte, la sanzione pecuniaria di cui alla l. n. 47 del 1948, art. 12, può essere irrogata anche dal giudice civile, al quale non è impedito di accertare — sia pure in via incidentale – l'esistenza del reato (Cass. III, n. 690/2010). Anche qui la misura del quantum diviene funzionale alla capacità offensiva della condotta che, dunque, si fa più intensa laddove la notizia che la veicola abbia una maggiore pervasività di diffusione alla quale va parametrato il risarcimento in sede civile ove sussista un rapporto di causalità tra narrazione e vulnus alla reputazione secondo quanto il giudice civile deve accertare.

Va escluso l'inibitoria o comunque un provvedimento cautelare preventivo che impedisca o limiti la diffusione nel caso di diffamazione commessa attraverso giornale o periodico pubblicato con il mezzo telematico ma che si presenti, comunque con le stesse caratteristiche generaliste del giornale tradizionale, ossia una testata, un direttore responsabile un impegno professionale (Cass. S.U., n. 23469/2016) ferma restando la tutela in tema di trattamento dei dati personali.

L'art. 9 della legge sulla stampa ( l. 47/1948 cit.) prevede, replicando la disposizione di cui all'art. 120 c.p.c. che l'eventuale sentenza di condanna per diffamazione a mezzo stampa sia pubblicata integralmente o per estratto. Il direttore responsabile è tenuto a eseguire gratuitamente la pubblicazione a norma dell'art. 615, primo comma, c.p.p.La pubblicità della decisione può avvenire non solo su uno o più giornali, ma con la riforma della l. n. 69/2009 anche sui siti internet indicati dal giudice.

È da credere che la pubblicazione della sentenza costituisca una misura ripristinatoria di una verità collettiva restitutoria, non propriamente diretta a risarcire il danno, ma a ripristinare, nel limite del possibile, attraverso una maggiore conoscibilità, la reputazione della persona pregiudicata dalla condotta diffamatoria attraverso false rappresentazioni della realtà. Ne consegue che la pubblicazione della sentenza così intesa assolve una funzione sua propria che si aggiunge, senza esaurirla a quello del risarcimento del danno per equivalente e che, tra l'altro, può intervenire a distanza di molti anni dal fatto (Cass. III, n. 1091/2016 così depotenziando il ristoro comunque traibile dalla pubblicazione della sentenza di condanna.

Apparentata a tale forma di riparazione in forma specifica è anche l'ipotesi prevista dall'art. 8 L. 47/1948, poi emendato dalla l. n. 416/1981, art. 42.

A proposito della rettifica va specificato che secondo il giudice di legittimità (Cass. III n. 23835/2010) il diritto di rettifica delle notizie pubblicate dai mezzi di informazione — attribuito dall'art. 8 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, così come modificato dall'art. 42 della legge 5 agosto 1981, n. 416, all'interessato in caso di notizie non vere o che il predetto ritenga lesive dei della propria immagine sociale non è demandata alla discrezionalità di chi ha la responsabilità del mezzo d'informazione, ma deve inverarsi in tutti i casi in cui ne ricorrano i presupposti, con i soli limiti stabiliti dalla legge sulla stampa.

Da questo punto di vista è evidente che l'accertata liceità della pubblicazione delle notizie di cui si chiede la rettifica — trattandosi di notizie rispondenti alle conoscenze acquisite fino a quel momento e ricorrendo gli estremi del diritto di cronaca — non fa venir meno l'obbligo di pubblicare la rettifica dell'interessato, qualora la relativa domanda sia volta a far valere l'avvenuto accertamento dei fatti in termini diversi da quelli in precedenza pubblicati, dovendo la verità reale prevalere sulla verità putativa, fermo restando che il giornalista ha l'obbligo di controllare l'attendibilità della sua fonte di conoscenza, salvi i casi di notizie promananti da un organo d'indagini o requirente. Ne consegue che il giornalista è tenuto a vagliare la verità del fatto pubblicato, salva la prova – che grava su di lui- l'esimente di cui all'art. 59 ultimo comma c. p. ossia l'assenza di un suo errore scusabile. Tanto premesso va precisato che non costituisce verità putativa la verosimiglianza dei fatti narrati, con un obbligo tanto più stringente quanto più la notizia sia potenzialmente lesiva della reputazione altrui.

Solo a queste condizioni la lesione dell'onore e della reputazione altrui non si verificaverifica rimane pregiudicata perché la diffusione a mezzo stampa delle notizie costituisce atto di legittimo esercizio del diritto di cronaca.

In definitiva, può dirsi che il diritto di cronaca appare condizionato all'esistenza dei seguenti presupposti: la verità oggettiva, o anche solo putativa, purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca, tenuto conto della gravità della notizia pubblicata; l'interesse pubblico alla conoscenza del fatto (cosiddetta pertinenza) e la correttezza formale dell'esposizione. A tale proposito la giurisprudenza della S.C ha più volte ribadito che la valutazione in concreto della sussistenza di tali elementi è un potere spettante al giudice di merito.

Per quanto la giurisprudenza di legittimità abbia affermato che una rettifica tempestiva può assorbire il pregiudizio creato dalla notizia o dell'immagine lesiva della dignità della persona (Cass. III, n. 1091/2016) specificando che sebbene, la quantificata entità del corrispondente danno risarcibile non possa essere automaticamente ridotta per effetto della pubblicazione della sentenza su un quotidiano essa assolve ad una funzione riparatoria in via preventiva rispetto all'ulteriore propagazione degli effetti dannosi dell'illecito, diversamente dal risarcimento del danno per equivalente che tende l ristoro di un pregiudizio già verificatosi.

In questo caso il ripristino della verità pubblica può avvenire in via preventiva attraverso la previsione dell'obbligo del direttore del giornale di pubblicare con determinate modalità e gratuitamente la rettifica in questione e con modalità diverse a seconda che si tratti di un quotidiano o di un periodico, inoltre le rettifiche in questione devono fare riferimento allo scritto che le ha determinate e devono essere pubblicate nella loro interezza, con il limite di trenta righe, rispettando le caratteristiche tipografiche, per la parte che si riferisce direttamente alle affermazioni contestate.

In via successiva, nel caso di omissione la rettifica o dichiarazione che non sia stata pubblicata il rimedio apprestato è quello del provvedimento cautelare ex art. 700 c.p.c., contenente l'ordine di pubblicazione.

Si deve ritenere che il direttore responsabile sia obbligato a procedere senza operare alcuna valutazione di merito su quanto esposto dal richiedente e lo stesso deve dirsi per il giudice adito con la domanda cautelare senza alcun sindacato sulla veridicità di quanto narrato dal richiedente.

Limiti esterni al diritto di rettifica sono la pertinenza dei fatti da rettificare rispetto alla narrazione contestata, l'esclusione di condotte di rilievo penale ed, infine, lo spazio da dedicare alla rettifica, ossia non più di trenta righe.

È da credere che la pubblicazione debba essere, a sua volta, neutra, ossia prova di commenti suggestivi o, comunque,idonei a distorcere ulteriormente la rettifica, mentre sono possibili digressioni attraverso le quali il giornalista confermi la propria narrazione e le circostanze ivi riferite. Secondo la Suprema Corte (Cass. n. 1091/2016) la rettifica costituisce presidio autonomo di riparazione della lesione all'immagine e della reputazione, che non assorbe il danno risarcibile, ma, attraverso il ristabilimento della veridicità dei fatti narrato o dell'immagine pregiudizievole assolve ad una funzione riparatoria in via preventiva rispetto all'ulteriore propagazione degli effetti dannosi dell'illecito, laddove il risarcimento del danno per equivalente mira al ristoro di un pregiudizio già verificatosi.

Infatti, la violazione dell'obbligo di rettifica di cui all'art. 8 della l. n. 47 del 1948 mira a tutelare la lesione del diritto all'identità personale, indipendentemente dalla difesa dell'onore e della reputazione individuale, con la conseguenza che la domanda spiegata in caso d'inosservanza dell'obbligo di rettifica è diversa da quella risarcitoria nel caso di diffamazione a mezzo stampa (Cass. III n. 13520/2017).

Per quanto riguarda la rettifica per i telegiornali e giornali radio essa è prevista dall'art. 32 del d.lgs. n. 177/2005 (Testo unico della radiotelevisione) che prevede, invece, che “chiunque si ritenga leso nei suoi interessi morali o materiali da trasmissioni contrarie a verità, ha diritto di chiedere all'emittente, al fornitore di contenuti privato o alla concessionaria del servizio pubblico generale radiotelevisivo ovvero alle persone da loro delegate al controllo della trasmissione che sia trasmessa apposita rettifica, purché questa ultima non abbia un contenuto che possa dar luogo a responsabilità penali”.

Si noti che la norma parla di trasmissioni contrarie a verità, laddove il diritto di rettifica relativo alla stampa fa riferimento ad un ad una sorta di “verità” “soggettiva”, ossia tende a ristabilire un equilibrio tra la propalazione di un fatto ed il punto di vista dell'interessato laddove la norma citata utilizza un criterio di verità oggettiva.

Sulla questione della diffamazione via web anche con riguardo alle note e recenti problematiche delle delle “fake news”, va segnalato il tema della responsabilità del responsabile del trattamento dei dati che potrebbe concorrere nelle attività illecite e dell'hosting provider di cui al l d.lgs. n. 196/2003 che tuttavia si limita a veicolare dati ( vedasi in proposito Cass. pen. III, n. 5107/2013 in tema di trattamento illecito di dati personali a carico degli amministratori e dei responsabili di una società fornitrice di servizi di "Internet hosting provider" che memorizza e rende accessibile a terzi un video contenente dati sensibili).

Nel caso di specie la Corte ha evidenziato che l'attività svolta dal "provider", anche secondo quanto dispone il d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70, consiste nell'offrire una piattaforma sulla quale i destinatari del servizio possono liberamente caricare i loro video senza che il gestore abbia alcun potere decisionale sui dati sensibili in essi inclusi, e, quindi, possa essere considerato titolare del trattamento degli stessi, finché non abbia l'effettiva conoscenza della loro illiceità, non incombendo a suo carico un obbligo generale di sorveglianza, di ricerca dei contenuti illeciti o di avvertimento della necessità di rispettare la disciplina sulla "privacy").

Come attraverso il web possono essere diffusi contenuti e lesive della reputazione e dell'onore di un individuo parallelamente sorge in stretto collegamento con l'interesse pubblico alla notizia sempre aggiornata il diritto all'oblio considerato che la nuova realtà dell'informazione globale sollecita oggi il legislatore a intervenire anche su questo aspetto.

Il diritto all'oblio

In proposito va ricordato che con la sentenza della Corte di Giustizia europea del 13 maggio 2014, Sentenza nella causa C-131/12, Google Spain SL, Google Inc./ Agencia Española de Protección de Datos, Mario Costeja González veniva esaminato il caso del ricorso del cittadino spagnolo Mario Costeja Gonzalez, avvocato, che si era rivolto all'equivalente del nostro Garante per la Privacy spagnolo, affermando che il motore di ricerca Google dava conto di una vendita in suo danno risalente a 16 anni addietro e pubblicata da una testata giornalistica, ossia un‘informazione non più attuale, rispetto al suo stato economico attuale, assumendo che detta notizia violava la sua privacy. La Corte di Giustizia Europea, investita del rinvio pregiudiziale, gli ha dato ragione affermando che ogni cittadino europeo ha diritto di far rimuovere ai motori di ricerca online i risultati di ricerca di determinati link allorché essi rimandino verso «contenuti non più rilevanti» che li riguardano. In proposito i Giudici Europei hanno, infatti, affermato che ogni persona la cui identità sia collegata e reperibile con un motore di ricerca può chiedere al responsabile del motore medesimo che il link sia cancellato e ciò si può fare direttamente senza intentare una causa di diffamazione, ma come ipotesi di trattamento dati nel rispetto della privacy. Infatti, il link viene soppresso indipendentemente dal carattere lecito o meno dell'inserimento dell'informazione e prescindendosi dal contenuto diffamatorio o meno della notizia. La possibilità di cancellazione dei link comporta in effetti una rimozione di passati ingombranti. Ne deriva che con questa decisione, si spezza comunque il legame tra soggetto che pubblica la notizia e il motore di ricerca che indicizza i risultati, considerato che la responsabilità per la cancellazione del link molesto si sposta sul gestore del motore di ricerca su Internet identificato come responsabile del trattamento dei dati personali.

Ne deriva che se all'esito di una ricerca appaiano i risultati attraverso un determinato link verso una determinata pagina web l'interessato può rivolgersi direttamente al gestore del motore di ricerca per ottenere la cancellazione del link dal complesso dei risultati e, nel caso di risposta negativa, può rivolgersi all'Autorità Giudiziaria competente.

Secondo la Corte di Giustizia, occorre comunque verificare, in particolare, se l'interessato abbia diritto a che l'informazione in questione riguardante la sua persona non venga più collegata al suo nome in base ad un elenco di risultati, ma sembra qui prescindersi dalla circostanza che l'esito della ricerca e, quindi, il collegamento tra risultato ed identità, arrechi un pregiudizio a detto interessato, anzi si afferma che anche di fronte a dati di secondo grado trova integrale applicazione il concetto di «trattamento».

Anzi, la Corte, pur consapevole dei diritti fondamentali in gioco, parte dalla semplice premessa che i dati-informazioni coinvolgano una serie di informazioni le quali- al di fuori dell'assemblaggio operato dal motore di ricerca — difficilmente si sarebbero potuti conoscere perché è la connessione simultanea delle informazioni che rende intelligibile «la narrazione».

È vero che tutta la normazione sulla protezione dei dati personali lambisce anche la dimensione storica dell'individuo e che nel conflitto tra conoscenza e privacy occorre bilanciare diritti fondamentali equi-ordinati (Cass. n. 5525/2012) ed è vero che la Direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, garantisce la parità di rango dei diritti fondamentali in gioco, ma qui la decisione appare penalizzare la libertà di ricerca di dati- sì individuali- ma di «secondo grado», ossia già pubblicati sui media e organizzati algoritmicamente dal motore di ricerca.

Si tocca qui un punto nevralgico del rapporto tra storia e memoria laddove si annida, nella valutazione del caso concreto, l'insidia di una censura indiretta.

Bibliografia

Abruzzese, Sociologie della comunicazione con Paolo Mancini, Bari, 2007; Alagna, Diffamazione on line a mezzo stampa: no alla cautela preventiva, nota a Cass. S.U., n. 23469/2016, in ridare.it; Barletta, Lesione del diritto all'oblio da parte dei gestori di motori di ricerca su internet, nota a Trib. Milano, 5 gennaio 2017 n. 12623, 22 Marzo 2017, in ridare.it; Bauman, Voglia di comunità, Bari, 2001; Casillo, Di Trocchio, Sica, Falsi Giornalistici, Finti Scoop e Bufale quotidiane, Napoli, 1997; Cataliotti, 26 Gennaio 2017 Focus Risarcimento del danno da diffamazione, Diffamazione a mezzo stampa, in ridare.it; Corasaniti, Diritto e deontologia dell'informazione, Bari, 2006; Debord, Commentari alla Società dello Spettacolo, SugraCo, Milano, 1971; Habermas, Teoria dell'agire comunicativo, Bologna, 1997; Leonzi, La comunicazione come cultura, in Il Medioevo Italiano, a cura di Morcellini, Roma, 2010; Mascilli Migliorini, Sociologia della comunicazione, Montefeltro, Urbino, 1984; Morin, Il Metodo, Milano, 2001; Perniola, Miracoli e Traumi della Comunicazione, Torino, 2009; Pubblicazione arbitraria di atti del procedimento penale ed irrisarcibilità del danno non patrimoniale di lieve entità, 4 Marzo 2016 a cura della Redazione Scientifica, nota a Cass., S.U., n. 3727/2016, in ridare.it; Ringelheim in Bruti Liberati, Rappresentazione Mass-Mediatica della Giustizia, Consiglio Superiore della Magistratura, Atti Convegno, 2010; Salvadori, Democrazia, senza democrazia, Bari, 2009; Sorice, La comunicazione politica, Roma, 2011; Zagrebelesky, Sulla lingua del tempo presente, Torino, 2010.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario